La coperta è troppo corta, non serve tirarla: c’è bisogno al più presto di un cambio di rotta
In questi mesi in Italia i servizi sanitari e sociosanitari si trovano ad affrontare il problema della mancanza di personale: medici, infermieri, operatori sociosanitari. Un problema drammatico, soltanto acuito dalla pandemia, che ha evidenziato una situazione strutturale problematica già prima dell’emergenza.
Un dato significativo è la carenza, storica, di infermieri in Italia: solo 556 ogni 100.000 abitanti, mentre in Francia sono 1019, in Germania 1084, per non citare la Svezia con i suoi quasi 2000 infermieri per 100.000 abitanti. Per essere nella media europea gli infermieri dovrebbero essere il doppio di quelli attuali. Questo mentre migliaia di giovani in questi giorni non riescono ad accedere ai corsi universitari per le professioni sanitarie a causa del “numero chiuso”, un metodo che è degenerato in un blocco rigido, spesso con un sapore autoreferenziale in mano agli ordini professionali.
Il nuovo corso dell’assetto territoriale dei servizi sanitari e sociosanitari, che prevede il loro avvicinamento ai domicili delle persone riducendo il ricorso a servizi residenziali, trova un ostacolo non solo nella carenza di risorse economiche, in quanto i finanziamenti del PNRR sono destinati a coprire solo gli investimenti, ma nella disponibilità di figure professionali: senza infermieri e senza OSS non esiste la domiciliarità integrata. Senza un’adeguata politica di rafforzamento del personale, si indebolisce il Servizio Sanitario Nazionale e si riduce il diritto alla salute di tutti.
Il PNRR in questo ambito rischia di fallire i suoi obiettivi, se non saremo capaci di farne un volano affinché le carenze strutturali del sistema sanitario possano, in futuro, essere colmate. Per applicarlo appieno e gettare le basi per il futuro sarà necessario dotare la collettività del personale sufficiente affinché si possa investire su prossimità, medicina del territorio, differenziazione dell’intervento, miglioramento dei servizi ospedalieri. Come Diaconia Valdese denunciamo, in tal senso, un gravissimo ritardo, con conseguenze pesanti, in particolare, anche per le RSA della diaconia.
Le motivazioni sono molteplici: oltre alle politiche gestionali delle professioni, l’assenza ormai da molto tempo di un piano nazionale adeguato alla formazione di operatori ed operatrici sanitarie, con la delega alle Regioni e la conseguente frammentaria organizzazione della formazione stessa; il blocco delle assunzioni nel pubblico, con uno smodato utilizzo delle convenzioni con gli enti privati, con l’unica prospettiva di risparmiare, anche abdicando alla qualità dei servizi ed al riconoscimento del lavoro dei dipendenti, con la conseguente “fuga” di buona parte del poco personale formatosi verso altri Paesi europei.
Oggi, in tempo di pandemia, i nodi vengono al pettine e il sistema sanitario pubblico, anziché investire, drena personale dalle strutture private che rischiano così di vedere inficiata la loro possibilità di intervento. Abolire immediatamente il numero chiuso e ripristinare a pieno il diritto allo studio, attraverso un solido investimento nella formazione universitaria; incentivare i/le giovani ad intraprendere le professioni mediche; coordinare, incrementare e centralizzare la formazione di operatori ed operatrici sanitarie; riconoscere i titoli di quanti e quante hanno conseguito gli studi all’estero: sono alcune delle possibili soluzioni per il rilancio della nostra sanità.
Torre Pellice, 26 ottobre 2021
La Commissione Sinodale per la Diaconia
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La Diaconia Valdese è un ente ecclesiastico senza scopo di lucro che raccoglie, collega e coordina l’attività sociale della Chiesa valdese e ne gestisce alcune strutture di assistenza e accoglienza, occupandosi di anziani, minori, disabili, adulti in difficoltà, migranti e attività di volontariato.